Polmone d’acciaio, cos’era e a cosa serviva? Qualcuno ci ha vissuto dentro per più di 70 anni

La scienza negli ultimi anni ha fatto passi da gigante impressionanti, anche e soprattutto nel campo della medicina, con macchinari sempre più sofisticati e tecniche sempre più innovative e precise per il trattamento dei pazienti. Una delle sfide più difficili nella storia medica è stata quella di “simulare” l’attività dei polmoni per permettere ai pazienti di respirare in modo artificiale, e il primo step importante, in questo settore, è stato fatto nel 1928 con la costruzione del cosiddetto “polmone d’acciaio”. Vediamo di cosa si tratta.

La prima macchina per la respirazione artificiale: ecco cos’è il polmone d’acciaio e tutte le curiosità a riguardo

La storia dei respiratori artificiali è molto lunga e affascinante, viste le grandi difficoltà che sono state riscontrate nei primi anni del secolo scorso e le grandi innovazioni di oggi. I macchinari per la ventilazione polmonare oggi sono sempre più sofisticati e ingegnosi, e grazie alla loro azione ogni anno vengono salvate tantissime vite, ma non è sempre stato così.

Negli anni 30 del 1900 a tenere banco e in allerta la comunità medica era l’epidemia di poliomielite. Tra i danni più gravi causati dall’infezione, c’era la paralisi polmonare che ostacolava la respirazione autonoma, e risultava grave soprattutto nei bambini. Molti sopravvissero grazie ai primi ventilatori meccanici, sviluppati pochi anni prima da diversi medici. Si trattava di scatole rettangolari in metallo, i quali ospitavano al loro interno l’intero corpo dei pazienti, esclusa la testa. L’attività polmonare veniva ripristinata artificialmente tramite cambiamenti di pressione nel macchinario, inducendo contrazioni e dilatazioni del torace. Fino agli anni Sessanta, questi dispositivi furono gli unici a restituire la funzione respiratoria a chi l’aveva persa.

Poliovirus
Poliovirus | Pixabay @Dr_Microbe – Saluteweb.it

Philip Drinker e Charles McKhann furono i pionieri in questo campo, grazie alla loro pubblicazione del manuale “The Use of a Novel Device for Prolonged Administration of Artificial Respiration: I. A Fatal Case of Poliomyelitis“, nel quale veniva descritto accuratamente l’efficace utilizzo di un respiratore artificiale nei pazienti colpiti da poliomielite paralitica. I due studiosi del Boston Children’s Hospital impiegarono il dispositivo noto prima come Respiratore Drinker e successivamente come “Polmone d’acciaio” per fornire supporto temporaneo e, in alcuni casi, supporto respiratorio permanente ai pazienti con paralisi diaframmatica e muscolare intercostale, cruciali per la respirazione.

Questo avrebbe consentito a numerosi pazienti colpiti da poliomielite di mantenere la respirazione e la vita, anche se con il sostegno del dispositivo per diverse ore, giorni o per la durata necessaria in base alle condizioni cliniche.

I metodi manuali impiegati in precedenza risultarono insufficienti a garantire gli scambi di ossigeno indispensabili per la sopravvivenza. Gli altri dispositivi automatici dell’epoca, come il “Pulmotor,” non furono adeguati nelle manovre rianimatorie, essendo troppo energici e quindi dannosi per altri organi coinvolti. Diversamente, il respiratore Drinker fu progettato appositamente per adattarsi ai parametri respiratori necessari ai pazienti con poliomielite, operando stabilmente per lunghi periodi senza causare lesioni fisiche. Il polmone d’acciaio fu concepito per accogliere pazienti di ogni tipo, dai bambini di pochi anni agli uomini di due metri e oltre 100 chilogrammi.

L’apparecchio ha risposto a tutte le esigenze tecnologiche di quegli anni, rimanendo ancora oggi una soluzione efficace per i pazienti affetti da specifiche patologie respiratorie in alcune regioni del mondo.

Ma come funziona il polmone d’acciaio? Durante l’uso, il paziente viene posizionato sdraiato a pancia verso l’alto con la testa sporgente dal respiratore. Un collare in gomma viene applicato al collo per isolare il corpo all’interno del dispositivo, essenziale per mantenere un ambiente pressurizzato. Questo consente di far scorrere il lettino verso l’esterno, consentendo l’accesso diretto al corpo del paziente che temporaneamente esce dal respiratore. Grazie al successo delle sperimentazioni umane, la società “Consolidated Gas” acquistò un respiratore funzionante da Harvard per donarlo al Bellevue Hospital. In pochi giorni, il dispositivo supportò un paziente incosciente e senza attività respiratoria, vittima di un avvelenamento accidentale. Dopo una lunga degenza, il ragazzo guarì completamente.

Insomma, questo tipo di respiratore ebbe un grande successo e fu una svolta fondamentale per il mondo della medicina, tanto che, nonostante oggi possa sembrare un metodo superato, c’è chi ancora è costretto a vivere all’interno di un polmone d’acciaio. Ecco la storia di Paul Alexander.

L’uomo che vive da 70 anni in un polmone d’acciaio: ecco la sua storia

Paul Alexander è un uomo che venne colpito dalla poliomielite nel lontano 1952, quando aveva solo 6 anni. La malattia lo lasciò paralizzato dal collo in giù, rendendo impossibile la respirazione autonoma, motivo per cui oggi, oltre 70 anni dopo, Paul vive ancora all’interno di un polmone d’acciaio, la macchina che gli salvò la vita, ma che oggi da allora è rimasta la sua “casa”.

Quando la malattia lo colpì, sembrava che il suo corpo fosse incapace di eseguire il gesto più automatico, comune, innato e indispensabile per la sopravvivenza, poiché Paul aveva notevoli difficoltà a prendere fiato e a farlo giungere nei polmoni. La poliomielite è una malattia altamente contagiosa causata da tre varianti di polio-virus (1, 2 e 3), appartenenti alla famiglia degli enterovirus, capace di indurre paralisi nel midollo spinale e nel tronco cerebrale.

Paul Alexander, l'uomo che vive in un polmone d'acciaio
Paul Alexander, l’uomo che vive in un polmone d’acciaio | Youtube @SpecialBooksbySpecialKids – Saluteweb.it

Dopo una fase iniziale caratterizzata da infiammazione alla gola, febbre, affaticamento, nausea e cefalea, il poliovirus procede ad attaccare il sistema nervoso centrale, causando la distruzione delle cellule neurali. Questo porta a una paralisi muscolare che rende estremamente ardui i movimenti, al punto di impedirli completamente. Nei casi più gravi, il virus può addirittura paralizzare i muscoli innervati dai nervi cranici, compromettendo la respirazione, la deglutizione e la parola. Paul venne quindi prontamente trasferito a un dispositivo di ventilazione artificiale, rimanendo sdraiato con solo la testa fuori, la stessa posizione in cui vive ancora oggi. Da allora, Paul vive immerso in questo enorme polmone d’acciaio, anche se ci sono stati momenti, purtroppo brevi, in cui ha potuto fare a meno di esso.

Con l’assistenza di un terapista fisico, Paul ha imparato una tecnica conosciuta come “respiro glossofaringeo” (o “respiro a rana”), consentendogli di aspirare un po’ d’aria nei polmoni e distanziarsi temporaneamente dalla sua “dimora” di acciaio.

Nonostante le sue complesse circostanze, Paul non ha mai mollato, arrivando a ottenere il diploma al liceo di Dallas, diventando il primo a farlo senza frequentare le lezioni. Alcuni anni dopo, ha conseguito anche la laurea all’Università del Texas di Austin e ha esercitato come avvocato. Alle udienze in tribunale si presentava sempre elegantemente vestito, supportato da una sedia a rotelle appositamente modificata per le sue necessità.

Nel 2020, dopo quasi 8 anni di impegno, ha lanciato un’autobiografia intitolata “Three Minutes for a Dog”, scritto dettando le parole a un compagno e digitando le lettere su una tastiera con l’ausilio di una bacchetta di plastica manovrata dalla bocca.

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